Danilo e Alessandra ci raccontano la loro esperienza con la ristorazione in Gran Canaria.
Evidentemente non è tutto oro quello che luccica: la normativa vigente non tutela gli imprenditori!
Sono una coppia che ha scelto l’isola di Gran Canaria per coronare il loro sogno di una vita. Perché? Entrambi provengono dal settore della ‘hosteleria’: Alessandra, chef e Danilo, responsabile di sala.
Si sono anche sposati qui, dopo il coronavirus, ed hanno aperto un ristorante di successo in una zona tra l’altro poco turistica e frequentata prettamente da canari, Tafira.
Offrono una esperienza di cucina tipica regionale italiana, ma con prodotti locali. Il loro ristorante è talmente ‘cresciuto’ nel tempo da richiedere l’ausilio di personale dipendente esterno.
Negli ultimi 5 anni hanno cambiato una ventina di dipendenti, tra sala e cucina.
Ma quando è venuta meno l’esclusiva conduzione familiare, sono iniziati i problemi…
Danilo, cosa è accaduto?
Abbiamo assunto di tutto: da giovani neodiplomati della scuola alberghiera locale, a gente che affermava essere esperta del settore.
Perché c’è stato questo turnover?
E’ stato necessario a causa della mancanza di professionalità, della poca dedizione all’impresa: persone che si concentravano unicamente sull’orario di lavoro. Non interessate ad ‘involucrarsi’ con l’attività.
Non è un problema di età del dipendente, è un atteggiamento che si nota sia da parte del giovane, del giovincello, del neofita, ma anche in quello più esperto.
Non c’è desiderio di migliorarsi, di acquisire competenze nuove, di relazionarsi con sentimento al lavoro.
Il nostro modus operandi è quello di essere molto vicini al cliente e quindi dedicarci totalmente alle sue esigenze. Alcuni piatti sono sconosciuti, quindi vanno spiegati, è necessario fargli capire la differenza del prodotto che stiamo servendo.
Inoltre noi facciamo tutto fresco: dall’antipasto fino al dolce. E’ pertanto necessario approfondire ciò che è scritto nel menù perché la gente possa scegliere…
Diciamo che forse manca proprio la curiosità.
Raccontaci qualche aneddoto…
Potremmo scriverci un libro su questo.
Ricordo, tra i vari, uno che andò in vacanza e non è più tornato, non si è mai ripresentato sul posto di lavoro. Un altro che invece era solito fumare ‘spinelli’ e si dimenticava le cose in un tragitto di 1 metro. Altri che si dedicavano semplicemente a togliere o rimettere un piatto a tavola, come robot. Ma non è questo il nostro lavoro…
Finchè un giorno abbiamo deciso con mia moglie di ridurre al minimo possibile il personale e seguire gestendo l’attività in tre persone, ovviamente concertandolo a tavolino con l’ultimo dipendente rimasto.
Abbiamo quindi raccolto le nostre forze e ci siamo detti: riusciremo in tre a portare avanti l’attività!.
Ma è durato poco -continua amareggiato Danilo-: oggi siamo solo in due, io e mia moglie.
Questo ragazzo ha lavorato con noi per tre anni, è entrato con tantissima umiltà, dichiarando di non aver mai avuto la possibilità di lavorare in cucina, che era totalmente a digiuno di qualsiasi nozione culinaria e nonostante ciò non abbiamo avuto problemi a farlo entrare in casa nostra.
Si è messo al fianco di Alessandra, mia moglie che lo ha formato.
Ha creato un piccolo cuoco che cresceva quotidianamente e cominciava ad avere sempre più dimestichezza nell’ambito della cucina.
Sembrava apparentemente affidabile, su di lui ci facevamo affidamento.
Però, ahimè, anche quest’ultimo ragazzo ha deciso, in seguito ad una incomprensione di lavoro e a numerosi errori che quotidianamente ripeteva, di essere stanco e stressato. Stava forse cercando un modo per farsi licenziare? Chissà… Un bel giorno non si è più presentato al lavoro dicendo di essere ‘malato di depressione’.
E quindi adesso io e mia moglie, rimboccandoci le maniche abbiamo preferito portare avanti l’attività da soli.
È vero che è capitato anche ad altri ristoratori di dover chiudere i loro ristoranti perché non trovavano dipendenti?
Tantissime attività, tantissimi imprenditori quotidianamente ‘subiscono’ questa situazione.
Il problema è che noi non siamo minimamente protetti, noi siamo alla mercé dell’umore dei dipendenti.
Siamo costretti a rimanere a lavorare da soli e oltretutto a continuare a pagare dei dipendenti che si approfittano di un sistema che gli permette di raggirare ‘le leggi’ a proprio vantaggio.
Mentre noi continuiamo a pagare i loro stipendi, anche per anni, durante le loro malattie… a volte nella totale nebulosità di un sistema che non ci permette di programmarne la sostituzione.
Il più delle volte la malattia che loro dichiarano o l’infortunio che hanno subito, mascherano interessi secondari che li portano ad abbandonare il posto di lavoro e continuare ad usufruire dei benefici statali a discapito dei titolari dell’impresa.
Danilo, a cosa attribuiresti questo disagio? Alla mancanza di certezza e legalità nella giustizia o “all’andazzo” della nuova gioventù, denominata Generazione Z?
Noti che ultimamente i giovani sono meno legati eticamente al lavoro e meno responsabili?
Io credo che principalmente il ‘disagio’ degli imprenditori derivi dalla Generazione Z che ha perso completamente il senso del lavoro, non hanno proprio la la minima idea…
Danilo, che cosa ne deduci?
Lavorare e sacrificarsi per portare a casa lo stipendio non è più un obiettivo primario.
Quello a cui ambiscono questi ragazzi della Generazione Z è avere tutto a loro disposizione. Tutto il tempo che vogliono per essere ‘social’ e soprattutto non sottostare a delle regole di vita che ti impone un’attività lavorativa non autonoma.
Dall’altra parte trovano una situazione a loro totalmente favorevole di cui possono approfittare che è una una carenza legislativa a tutela degli imprenditori.
Troppi vuoti legislativi li rendono estremamente protetti. Trasformando noi datori di lavoro, solo ed esclusivamente, in vittime del sistema.
Questa è la realtà e quindi?
L’amarezza che noi sentiamo dentro non è perché siamo soli adesso, ma perché non siamo tutelati e ci vediamo impotenti di fronte un sistema ingiusto.
Qualunque dipendente, a prescindere dalla nazionalità di provenienza?
Secondo la mia esperienza sono tutti uguali. Cioè non è una bandiera che differenzia l’uno dall’altro.
La realtà è che il canario gioca in casa in questo caso e quindi gli viene molto più facile.
Il sussidio denominato ‘Paro’ per loro è un obiettivo fondamentale: un aiuto sociale che gli consente dopo un periodo di lavoro di andare al bar e quindi godersi le spiagge dell’isola, gli intrattenimenti, senza lavorare. Per poi ricominciare il ciclo.
E la soluzione quale sarebbe secondo Danilo?
Cambiare la legge o cambiare la testa dei giovani?
Intanto cambiare la legge. In principio bisogna cambiare la legge: è inevitabilmente, giocoforza, il giovane si dovrà adeguare quando non avrà più risorse.
Inoltre è importante la mancanza di un indirizzo familiare. Può essere nelle famiglie il problema, che derivi dai genitori. A questo proposito ho un altro aneddoto che mi viene in mente: al licenziare uno degli ennesimi camerieri inutili, mi vedo arrivare alla porta del mio locale il padre che veniva a chiedermi spiegazioni. Quasi aggredendomi ma senza sapere che il figlio aveva fatto una marea di errori e causato un sacco di disagi al servizio, come l’assenza sul lavoro perché doveva giocare un torneo di carte con gli amici. Non c’è più rispetto davanti un datore di lavoro…
Investire alle Canarie, aprire un locale, cosa ti senti di consigliare a riguardo?
Un ristoratore dovrebbe trovare un locale non troppo ampio. Un’attività a conduzione familiare credo sia la migliore idea. Non dover contare su dipendenti che ti potrebbero abbandonare da un giorno all’altro, rovinandoti le finanze e l’immagine.