La sindrome dello zerbino, in psicologia, è una sintomatologia nella quale ci si azzera o ci si lascia azzerare dall’altro (usualmente partner) mantenendo la convinzione di essere i più forti, perché gli altri non avrebbero la forza di resistere in questa condizione.
Dal rapporto di coppia all’essere una persona-zerbino…
Sindrome dello zerbino. Qualche volta vengono definiti “zerbini”: di fatto sono persone che sembrano essere disposte ad azzerarsi per una relazione nella quale vengono dominate dal partner. Da non confondere con l’assertività.
I rapporti di questo tipo sono moltissimi e, pur con sfumature differenti, possono vedere uomini e donne equamente distribuite in entrambe le posizioni.
Alle donne viene chiesto generalmente di abnegarsi per questioni di carriera del marito. Questo per gli uomini rappresenta la sottomissione. Questa diversità può riguardare generalmente questioni più inerenti all’organizzazione familiare, o la vita privata della coppia.
Tutte le coppie, per ovvie ragioni di convivenza, devono accordarsi attraverso compromessi per trovare un equilibrio reciproco. Questo anche a costo di anteporre qualcosa dell’altro a noi stessi, “sacrificandosi” per amore. Il problema nasce quando questo sacrificio avviene sempre dalla stessa parte, con uno dei due partner che finisce per essere sempre più azzerato a vantaggio dell’altro.
Un tipo di rapporto di questo tipo viene generalmente definito “complementare”, perché le due persone interagenti mettono in atto comportamenti o ruoli “a somma zero”. Questo significa che tanto più uno aumenta, tanto più l’altro diminuisce (uno grida e l’altro si zittisce, uno si dedica al lavoro e l’altro allo svago, uno guadagna visibilità e prestigio e l’altro diventa invisibile, ecc.).
Sia questo tipo di rapporto che quello opposto, chiamato “relazione simmetrica” (quella cioè in cui, per capirci, quando uno grida, l’altro cerca di gridare ancora più forte) fanno parte della vita di ciascuna coppia e più in senso lato di qualsiasi sistema di soggetti in interazione.
Il problema, in entrambi i casi, sorge quando una di queste due modalità diventa unica e sistematica. Infatti, in entrambi i casi la coppia (o il gruppo di persone) si avviano ad un’escalation nella quale si starà sempre peggio.
Come si diventa una persona-zerbino?
Come mai quindi alcune di queste relazioni riescono ad essere incredibilmente durature?
E come mai alcune persone finiscono sempre in relazioni di questo tipo?
L’apparenza ci porta a vedere la persona in posizione down come una vittima schiacciata dall’altro (uno zerbino sotto lo schiacciasassi). Dall’interno, tuttavia, la percezione può essere molto più complessa e articolata.
Chi si trova in posizione down ha spesso la percezione di essere in realtà il più forte della coppia, perché è quello che sopporta maggiormente. Chi è più forte: lo schiacciasassi che pressa o lo zerbino che, per quanto schiacciato, resiste e sostiene il grosso macchinario?
Essere “colui che sopporta” diventa in questo caso una missione perché “in fondo se non lo sopporto io, non lo sopporta nessuno”.
Da questo può derivare anche la visione dei successi del partner come frutto anche della propria abnegazione alla causa e capacità di sacrificio.
Questo meccanismo fa sì che un rapporto così possa sostenersi per anni, fino ad arrivare ad un livello critico, se non interviene un meccanismo di senso opposto a riequilibrare il rapporto.
Le posizioni di un rapporto, infatti, sono sempre reciproche. Tranne rari specifici casi particolari, nessuno “schiacciasassi” può restare tale se non c’è uno “zerbino” a permetterglielo. Detto in altre parole, nessuno può essere dominante o direttivo se non perché qualcuno accetta di abnegarsi per lui (o lei).
Ma allora, come mai alcune persone finiscono sempre per trovarsi in relazioni di questo tipo?
Perché non riescono ad interrompere relazioni che sembrano essere mortificanti per loro?
Di fatto per qualcuno essere nella posizione di chi sopporta il peso è fonte di grande valorizzazione personale. Questa sensazione è molto più che essere sotto i riflettori “pubblici”.
Il caso e il primo incontro
Si è presentato da me Claudio, un professore universitario di 38 anni. Dopo essersi raccontato brevemente mi ha esposto subito il motivo della sua visita.
Sua moglie Elena lo tratta molto male per svariati motivi come il dedicarsi troppo alla sua professione e non avere mai tempo per fare qualcosa di diverso. Inoltre è molto assertivo anche nel campo del lavoro oltre che in casa con gli amici che spesso lo prendono in giro. Ultimamente ha notato che la moglie non lo interpella più per alcune decisioni, come uscire per andare da qualche parte, acquistare un mobile, cambiare auto e tante altre cose riguardanti il loro rapporto quotidiano di coppia.
Claudio ha anche la sensazione che il rapporto sessuale stia diventando più un’abitudine e un dovere da parte di lei che un desiderio di amore.
In altre parole, lui si sente come uno zerbino in casa e si sta convincendo anche nel campo del lavoro di esserlo. Quest’ultima sua impressione non è vera perché presso l’università nella quale insegna ed è ricercatore è molto quotato ed apprezzato dai colleghi e studenti.
Le conseguenze di questo caso
L’aver lasciato le redini del comando alla moglie non è stata una soluzione favorevole. Il suo non intervento, il dire “si va bene, …, come vuoi tu, …, basta che sei contenta, …” hanno provocato nella moglie una necessità di risolvere i problemi da sola senza l’appoggio da parte di Claudio. Con il tempo Elena si è organizzata come se vivesse da sola. Il marito serve solo per le necessità per le quali è utile la sua presenza: “aiutami a spostare il mobile, …, portami la biancheria sporca in lavanderia, …”.
Claudio sente che anche il sesso viene usato dalla moglie più per necessità fisica che per desiderio di amore. Cosa fare per riportare tutto nel dovuto ordine?
La cura di questo caso
Ho detto a Claudio che era necessario cambiare il proprio stile di vita. Si doveva rendere nuovamente interessante e intrigante come quando Elena lo conobbe e ne rimase affascinata.
C’erano varie cose da fare
- Crescita personale: scegliere un hobby o sport (non singolo, ma che offrisse la possibilità di partecipare anche ad Elena, anche in un secondo momento). Qui Claudio era avvantaggiato perché da giovane giocava a tennis e proprio in uno dei campi che frequentava conobbe Elena;
- dedicarsi alla cura personale, come andare da un nutrizionista e assumere una dieta equilibrata (come propria decisione) per avere sempre un ottimo stato di salute; coinvolgere la moglie a fare un corso di yoga;
- saltuariamente dire di no agli amici: c’era la consueta abitudine il fine settimana di vedere vari gruppi di amici, bisognava ogni tanto dire di no agli amici perché “ho una sorpresa per Elena, sai lavora molto e voglio regalarle dei momenti di spensieratezza”;
- sorprendere Elena: con iniziative (che da molti anni non aveva più avuto), come piccoli viaggi da weekend, feste di qualità, frequentazione di nuove attrazioni (teatri, opere,…) senza portarsi dietro i soliti amici;
- riprendere il potere decisionale in casa: anche senza interpellare Elena;
- dimostrarsi più indipendenti dal mondo del lavoro: questo era difficile, ma Claudio ci riuscì benissimo conciliando gli orari di lavoro con quelli di Elena.
Naturalmente, tutto questo senza esagerare, troppa forza in queste nuove prese di posizione poteva diventare controproducente.
Ricordare sempre che l’interdipendenza (tra moglie e marito) è una parte della relazione e non esiste relazione reale e profonda senza che vi sia una parte di dipendenza reciproca.
Tutte le cose da fare non dovevano però essere realizzate tutte insieme, ma come una naturale evoluzione e cambiamento personale che tornasse gradito e rispettato dalla moglie.
Conclusione felice
Non fu una cosa facile, né breve anche perché Elena, ormai disillusa stava mostrando interessi per un’altra persona. Qui Claudio è stato bravissimo, è riuscito a replicare l’uomo del quale Elena si era innamorata, sportivo, intraprendente, sempre pronto a sorprenderla con situazioni piacevoli, soddisfatto del suo lavoro ed economicamente indipendente.
C’è voluto poco più di un anno di lavoro, ma ne è valsa la pena.
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