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Il primo colloquio con un paziente riveste una grande importanza per lo sviluppo successivo del rapporto che si deve instaurare tra lo psicoterapeuta e il paziente.

Il primo colloquio, propedeutico e necessario, se ben costruito e si riescono ad ottenere impressioni positive da ambo le parti, è foriero della prossima guarigione.

Ci sono persone dal temperamento tranquillo e con uno stile di vita piuttosto stabile, da cui sappiamo cosa aspettarci e con cui è facile relazionarsi. Al contrario, ci sono persone (e tutti noi ne abbiamo in mente almeno una!) con cui non è così semplice rapportarsi. Il perché è che si comportano con gli altri a seconda dell’umore che hanno. Questa caratteristica, se si presenta in modo eccessivo viene considerata una vera e propria patologia psichiatrica chiamata “disturbo bipolare”.

I disturbi bipolari sono malattie con una forte componente biologica. Gli interventi più efficaci sono dati dalla combinazione di farmaci e psicoterapia. I pazienti in fase maniacale non riescono a trarre alcun beneficio dalla psicoterapia fino a quando non sono sotto controllo farmacologico per la tendenza a negare qualunque difficoltà psicologica.

Nello studio di uno psicoterapeuta è raro che arrivi una persona in questo stato per chiedere aiuto. Specie se è in momenti in cui l’umore è molto elevato, perché si sente molto bene. Piuttosto, questi pazienti chiedono aiuto spontaneamente quando sentono che sta per iniziare un periodo di depressione, che loro non tollerano.

Il caso – Impressioni di un primo colloquio  

Non molto tempo fa fa è arrivato da me per un trattamento una persona di questo tipo. Ricordo che il primo colloquio mi ha spiazzata parecchio. Appena entrato nel mio studio, il paziente ha iniziato a trattarmi con grande superiorità. La prima cosa che mi ha detto: “Vede, dottoressa, mentre stavo venendo da lei, mi sono chiesto: ma cosa ci vado a fare? Non credo proprio che lei sia in grado di fare nulla per me. Io sono già stato da molti psicologi, alcuni bravi, altri meno. Potrei tranquillamente sedermi lì al suo posto ed insegnarle io delle cose”.

Non ho potuto fare altro che chiedergli di proseguire e farmi capire il suo problema, dato che, comunque, si era disturbato a venire da me. Ha iniziato ad elencarmi i medici da cui si era recato, terapie che aveva provato (alcune valide, altre per nulla). Quindi, ha proseguito nel dirmi che la sua vita era perfetta. Aveva un lavoro molto ben remunerato, una vita agiata, una moglie che lo adorava ed un figlio educato, numerosi amici. Tuttavia, tutte queste persone lui le sentiva inferiori e lo annoiavano moltissimo. Aveva pure provato ad avere un’amante, ma pure lei lo annoiava!

I medici, ora che è stato nuovamente stabilizzato, gli hanno raccomandato di seguire un percorso con uno psicoterapeuta. Mi ha richiamato per iniziare con me. Attualmente è molto più tranquillo, meno annoiato e più interessato anche alle piccole cose. Ancora è in terapia con me e pare che tutte le sedute che abbiamo fatto gli siano state utili.

Mi ha chiesto, quando, tra poco, termineremo il nostro percorso, se saltuariamente può venire ancora a trovarmi perché con me ha trovato il modo di confrontarsi con se stesso e di rispondersi positivamente.

 

Primi segnali di depressione

Il suo problema era che non si sentiva felice, iniziava a sentire quello che lui chiamava male di vivere. Spesso giungeva a situazioni insostenibili e si era rivolto ad alcuni psichiatri, dietro consiglio della moglie. Gli era stata prescritta una terapia piuttosto forte che avrebbe dovuto seguire per tutta la vita. Lui questo lo aveva rifiutato, perché, odiava i farmaci e non voleva contaminarsi. Al colloquio rifiutava di dirmi che diagnosi gli avevano fatto, anche se a me diventava sempre più evidente e sosteneva che il suo problema era il male di vivere, la noia, a volte l’insonnia.

Mi sfidava perché voleva vedere se io potevo fare meglio degli altri. Umilmente, gli ho proposto che, se gli era piaciuto parlare con me, poteva tornare una seconda volta per provare a lavorare sul suo disturbo con dei metodi nuovi, che ancora non aveva sperimentato. Lui ha accettato, quasi per farmi un favore.

Il giorno del nostro secondo appuntamento non si è presentato. Mi ha scritto per spiegarmi come stavano davvero i fatti: si era dovuto ricoverare in clinica in quanto la situazione era diventata preoccupante. Gli dispiaceva di non potere proseguire la terapia, ma in quel momento non avrebbe potuto fare altrimenti. In quel breve scritto mi sembrava finalmente sincero, spogliato da quel senso di onnipotenza che ancora lo avvolgeva quando, pochi giorni prima, era venuto a fare il suo primo colloquio.

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