Mastro Titta: Giambattista Bugatti, giustiziere al soldo del Papa, lo Stato Pontificio non ammetteva mezze misure per sedare il malcontento che serpeggiava nella Roma papalina, delitti e misfatti venivano puniti con la morte. L’ordine doveva essere mantenuto e la soluzione era la pena capitale che le sentenze dei tribunali ecclesiastici emettevano per i rei. L’esecuzione pubblica serviva da monito, per le strade al passaggio dei condannati le guardie ammonivano “state attenti cittadini, qualunque sia la vostra condizione, tenete a freno la rabbia, perché ogni violenza sarà punita con torture atroci e infine con il patibolo”. Ma la paura non fermava la delinquenza e i patiboli erano sempre più usati.
Giambattista Bugatti, meglio conosciuto come Mastro Titta, abitava al numero quattro del vicolo del campanile, nel rione Borgo a due passi da San Pietro, era il protagonista incontrastato delle esecuzioni di condanna a morte. Nacque a Roma nel 1779. Praticò ben 516 esecuzioni e con certosina diligenza, descriveva ciascuna di esse nelle sue “Annotazioni”.
Per ogni esecuzione riceveva il compenso simbolico di un Papetto ovvero tre centesimi di lira romana, il poeta Gioacchino Belli (1791-1863) che raccoglieva nei suoi 2279 sonetti la voce del popolo romano, faceva osservare che un compenso così basso dimostrava la viltà dell’opera. Mastro Titta perciò non viveva di esecuzioni, la sua professione era verniciatore d’ombrelli. Aveva una bottega sotto casa.
Ha “lavorato” al soldo del Papa, dal 22 marzo 1796 al l7 agosto 1864, quando, all’età di 85 anni, fu collocato a riposo da Pio IX con una pensione mensile di 30 scudi, si pensi che un professore dell’Accademia di San Luca (Accademia Romana di Belle arti istituita da Gregorio XIII nel 1577) prendeva al mese 24 scudi.
Il diario segreto di Mastro Titta
Scriveva Mastro Titta nelle sue annotazioni di non provare nessun timore per ciò che aveva fatto, anzi avrebbe rifatto tutto senza esitare., forse perché si sentiva come il braccio esecutore della volontà di Dio per mezzo del Papa, fatto sta che era lui che decideva l’ultimo istante di vita del condannato, era lui a guardare negli occhi per l’ultima volta il condannato, la persona, era lui a vedere tremare di paura dei meno coraggiosi.
Ma a cosa pensava Mastro Titta nell’attimo fatale, l’attimo prima che la mannaia cadeva su collo del condannato? Pensava che quella testa tagliata fosse solo un numero tra tutte quelle tagliate? Non lo sapremo mai, e non sapremo mai se ad ogni fine esecuzione avesse provato un minimo di umanità per colui ammazzato per sua mano. Una cosa è certa è che fino ottantacinque anni ha eseguito condanne a morte. Cercava però, nella sua opera di boia, di essere il migliore, se non altro annotando le tecniche di esecuzione per togliere la vita dello sfortunato sul patibolo in modo veloce al fine di limitarne la sofferenza.
Mastro Titta aveva un suo rituale prima di ogni esecuzione, egli si confessava e si comunicava, e indossando un mantello rosso si recava a compiere il macabro atto dell’esecuzione.

Prestava lla sua opera anche fuori alla città eterna, tanto che annotava, “Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno, Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati».
Le esecuzioni in pubblico
Le esecuzioni in una sorta di rappresentazioni teatrali venivano eseguite principalmente a Castel Sant’Angelo, piazza del Popolo e in via dei Cerchi. Ancora oggi una targa affissa nel 1909 testimonia l’esecuzione a piazza del Popolo di due carbonari (rivoluzionari), Angelo Targhini e Leonida Montanari, condannati a morte dal Papa senza prove e senza difesa. Era il 23 novembre 1825. L’ultima esecuzione, la 516 la eseguì in via de’ Cerchi li 17 agosto 1864 la vittima fu Domenico Antonio Demartini, cittadino di Roma, reo di omicidi.
Lord Byron,
nobile, poeta e politico britannico, rimase colpito dalla crudezza delle scene di esecuzione capitale a cui ebbe modo di assistere. Conobbe Mastro Titta quando questo aveva quasi raggiunto la duecentesima esecuzione e lo descrisse così, “La cerimonia, compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte, è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle Sentenze inglesi”.
Charles Dickens,
scrittore, giornalista e reporter britannico, restò molto impressionato da un’esecuzione cui aveva assistito in via de’ Cerchi, intorno al 1865 e commentava con queste parole la scena: “Uno Spettacolo brutto, sudicio, trascurato, disgustoso; che altro non significava se non un macello, all’infuori del momentaneo interesse per l’unico disgraziato attore”. Quando il cadavere fu portato via, la lama detersa, e il boia s’allontanava ripassando il ponte, lo scrittore amaramente così concludeva le sue riflessioni: “….and the show was over”, “….e lo spettacolo era finito”.
Infine, Massimo D’Azeglio,
politico, patriota, pittore e scrittore, in alcune pagine de “I miei ricordi”, descrive un’immagine vista a Porta San Giovanni: “In una gabbia di ferro stava il cranio imbiancato dal sole e dalle piogge di un celebre malandrino”. Era costume per gli uomini di allora portare ad assistere alle esecuzioni i loro figli maschi. Alla fine, a giustiziato morto, davano uno sganassone (violento schiaffo) sulla nuca del figlio, come severo avvertimento”.
Al boia però era fatto divieto di oltrepassare il fiume Tevere al di la di Borgo, solo per proteggerlo, vista la fama della sua persona. Gli era concesso attraversare il ponte solo per le esecuzioni. Tanto è che ogni volta che si diceva “Mastro Titta passa ponte” significava un’altra condanna a morte.
Con l’atto della confessione e la comunione prima dell’esecuzione, forse credeva di essere assolto dal suo peccati. Il Papa che ordinava e lui eseguiva. Il Papa di un potere che nulla aveva di religioso ma che decideva sulla vita delle persone e Mastro Titta assicurava che la sua volontà fosse portata a termine.
Giambattista Bugatti moriva a Roma il 18 giugno 1869.
ll cinema ha fatto “der boia de Roma” un personaggio. Nel Rugantino (commedia musicale teatrale), l’attore romano Aldo Fabrizi era Mastro Titta e disse “farei Mastro Titta per tutta la vita”, in quello cinematografico, interpretato da Paolo Stoppa. un altro attore a portarlo sul palcoscenico di un teatro è stato Maurizio Mattioli.
Rugantino, personaggio romanesco, sfrontato e amante delle donne che alla fine si addosserà un delitto da lui non commesso, per far innamorare una bella femmina.
Condannato a morte, giustiziato da Mastro Titta.
Dall’epoca di Giambattista Bugatti tanta acqua è passata sotto i ponti di Roma, il tempo è trascorso ma l’uomo non è cambiato, troppi, tanti sono i Mastro Titta nel mondo che pur non usando la ghigliottina decidono della vita di migliaia di persone, senza scrupoli e senza rimorsi, per potere, per cupidigia e spesso per il semplice disprezzo della vita altrui.