problema

Il problema, dal punto di vista psicologico, è notevolmente complesso e non è risolubile all’interno delle strutture penitenziarie, almeno in quelle strutturate come le esistenti.

Il problema della psicologia penitenziaria riguarda la difficile convivenza tra la guardia carceraria, costretta ad agire in una struttura superata e male organizzata e il detenuto ormai vittima della sindrome di prisonizzazione o prigionizzazione. Tale sindrome fu individuata nel 1940 dallo scienziato Donald Clemmer.

Questa patologia si rivela con una serie di sintomi e segnali clinici, derivati dall’effetto della detenzione in carcere. Tali indicazioni dimostrano che il detenuto è vittima di un processo di perdita della personalità e, conseguentemente, di demolizione della propria immagine fino ad arrivare all’annichilimento dell’autostima. Un problema da non sottovalutare.

Più precisamente, la “prisonizzazione” consiste, dunque, in una “assimilazione”, cioè in una progressiva integrazione alla cultura carceraria, che comporta la modificazione della personalità del soggetto sottoposto al regime carcerario, per cui progressivamente si determina la perdita dei valori e delle capacità che il soggetto possedeva nella propria vita in libertà; l’estraniamento e l’isolamento, non solo dal mondo esterno, ma anche all’interno delle stesse mura del carcere. La perdita di individualità, da cui deriva l’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di nuovi modi di vestire, parlare e mangiare.

Clemmer, in particolare, sosteneva che “il mondo della prigione è un mondo privo di benevolenza. C’è sporcizia, puzza e sciatteria; ci sono monotonia e stupore. La sua popolazione è frustrata, infelice, smaniosa, rassegnata, amareggiata, astiosa, vendicativa. Se si eccettuano pochi individui, regna lo smarrimento”, motivo per cui si genera un adattamento allo stile di vita carcerario, quasi come fosse un effetto dell’istinto di sopravvivenza alle condizioni forzate in cui si è costretti a vivere. 

Certo è che l’incidenza del mondo carcerario sul detenuto, quindi il grado di prisonizzazione, varia in base a fattori individuali. Il problema è anche determinare il grado di gravità.

Il caso

Ho voluto parlare di questo argomento perché nel 2018 ebbi la visita di una signora appena andata in pensione e che per tutta la vita era stata una guardia carceraria. In realtà non aveva un gran bisogno della mia opera, anche se lei era convinta che il mio aiuto era stato fondamentale per la sua serenità. In effetti, la sua guarigione dai suoi difficili problemi esistenziali che la tormentavano è stata ottenuta da lei stessa. Lei veniva, mi raccontava parte della sua vita e del suo lavoro, trovava le sue soluzioni – a dire il vero sempre molto argute – e risolveva alcune parti dei suoi disturbi.

La cosa che, invece, non riusciva a sopportare e digerire era lo stato degradante nel quale versano le prigioni italiane. Non è un bel posto dove vivere, né l’ideale per poter recuperare una persona che sta pagando la sua colpa.

Lei mi ha raccontato che molti, moltissimi, specialmente quelli con condanne più pesanti, di qualche anno, subiscono una vera e propria trasformazione. Lei la chiamava la trasformazione della sopravvivenza, perché in effetti, per sopravvivere in un ambiente così negativo e manchevole era necessario togliersi tutto quanto era stato costruito nel proprio io per costruire un nuovo se stesso (spersonalizzazione di sé).

L’intervento dello psicologo

Il sostegno dello psicologo in carcere poggia sull’idea-guida che il sostegno ed il trattamento possano rispettivamente supportare l’Io nelle fasi più critiche. Inoltre, anche incidere significativamente sulla organizzazione esistenziale del soggetto.  Tale intervento al fine di promuovere il senso di colpa, di responsabilità e l’autocritica e motivarlo al reinserimento sociale.

Questi presupposti teorici continuamente si confrontano e si scontrano con i vincoli e le richieste istituzionali che li rendono a fatica compatibili con la quotidianità detentiva e con la precarietà delle nostre carceri.

La psicologia penitenziaria è una disciplina recente che si è sviluppata prevalentemente dalla fine anni ’70 in base all’evoluzione delle conoscenze della criminologia, della psicologia e all’ordinamento penitenziario che prevede l’introduzione anche degli esperti in psicologia nell’esecuzione della pena.

In Italia la psicologia penitenziaria sta conquistando una propria autonomia in base alla specifica individuazione del campo scientifico, alla nascita di associazioni (C.N.E.I.P.A-1980, A.N.P.P.I.-1994 e C.N.P.P.I.-1999), di una società scientifica (S.I.P.P.-2003) e alla istituzione del primo corso di perfezionamento post universitario presso l’Università di Urbino dal 2003-04.

I compiti istituzionali che hanno caratterizzato la psicologia penitenziaria, sono: osservazione e trattamento, sostegno psicologico, servizio di accoglienza, consiglio disciplina integrato, presidio tossicodipendenze e, recentemente, il colloquio di primo ingresso.

Gli interventi nelle macro-aree sono finalizzati a:

  • a) rispetto ai detenuti:
    • tutelare la salute psichica, prevenire il disagio e gli effetti negativi della detenzione;
    • elaborare diagnosi e indicazioni prognostiche;
    • individuare programmi di trattamento negli istituti e modalità alternative alla detenzione anche per prevenire una ricaduta;
    • fornire il sostegno psicologico a tutti i detenuti e ai loro familiari;
  • b) rispetto al personale:
    • promuovere la formazione, l’aggiornamento e la supervisione del personale;
  • c) rispetto all’organizzazione:
    • sviluppare l’analisi organizzativa e la progettazione;
    • stimolare la sperimentazione e la ricerca.

Sogniamo ad occhi aperti

La situazione è abbastanza grave e ci sentiamo impotenti soprattutto quando guardiamo alcuni altri Paesi dove le prigioni sono dei veri e propri hotel a quattro stelle. Per i curiosi, cliccare qui: le 10 prigioni più belle del mondo. Con queste strutture il problema della prisonizzazione è molto meno grave.